Trieste: mare in pericolo
Il 20 e il 27 settembre scorsi si sono svolti a Trieste due incontri sul tema del mare, degli ecosistemi marini e dell’inquinamento, organizzati dal gruppo anarchico Germinal e da Friday for Future Trieste. Gli incontri, entrambi molto partecipati, hanno visto due biologhe marine confrontarsi sulle diverse tematiche riguardanti il mare, in particolare il Golfo di Trieste che, seppur circoscritto, è caratterizzato da una elevata biodiversità ma anche da un grande impatto antropico.
Da millenni il mare è fonte di cibo, strada commerciale e affascinante mistero; più recentemente è diventato anche fonte di divertimento, relax e vacanze estive. L’umanità lo ha sempre visto come un’immensa e quasi inconcepibile distesa d’acqua, un mondo alieno dalle profondità inesplorate, viste come fonte inesauribile di risorse da estrarre e come discarica dove tutto sembra sparire sotto le onde. È rimasto un mondo navigabile solo in superficie fino ad appena un centinaio di anni fa, e tutt’ora ne è stata studiata solo una frazione: sono state descritte con buona precisione le comunità biotiche di appena il 10% delle acque oceaniche.
Negli ultimi decenni qualcosa ha però iniziato lentamente a cambiare, con l’aumentare dell’instabilità del clima e la realizzazione che ciò è causato dall’impatto che le attività antropiche hanno sul pianeta, gli studi sul mare e la sua esplorazione sono andati aumentando, fino ad arrivare in anni recentissimi alla consapevolezza che se crolla l’ecosistema mare, se i mutamenti che anch’esso sta subendo nella sua composizione chimica, salinità, correnti e temperatura continuano ai ritmi attuali non saranno solo gli organismi che lì vivono a sparire o mutare, ma anche l’ecosistema terrestre così come lo viviamo. Oramai conosciamo i meccanismi di scambio gassoso tra oceano e atmosfera, sappiamo con relativa sicurezza quanta anidride carbonica è assorbita dal mare (e quindi tolta dall’atmosfera), sappiamo che ruolo svolgono le sue acque nella mitigazione e regolazione del clima, sia a livello locale che globale, sappiamo che dai suoi organismi vegetali proviene più della metà dell’ossigeno atmosferico (stime recenti oscillano tra il 50 e il 60%) e conosciamo con abbastanza precisione come le correnti oceaniche siano interconnesse, interdipendenti e potenzialmente fragili, soggette a cambiamenti che si potrebbero rivelare disastrosi per la nostra sopravvivenza (si vedano gli studi degli ultimi anni sulle oscillazioni che sta subendo in portata e temperatura la corrente del Golfo).
Nasce da questa consapevolezza la volontà di parlare di mare a Trieste, di descrivere il Golfo, il suo ecosistema ed i pericoli che corre. Un desiderio che si fa necessità quando i piani di sviluppo economico della città ruotano attorno a due pilastri: sempre più grandi navi e l’ulteriore sviluppo ed espansione del porto commerciale. Per lottare in difesa di un territorio, che sia esso emerso o sommerso, bisogna amarlo sì ma conoscerlo porta a maggior determinazione e forse efficacia.
Il Golfo di Trieste è piccolo, appena 24km di larghezza per una profondità media di 16-20m (e massima di 24m), posto nel punto più a nord del mare Adriatico si potrebbe pensare non abbia grandi impatti sull’ecosistema mediterraneo né forse specie animali e vegetali particolari. Invece, proprio per la sua posizione e scarsa profondità, è uno dei due punti di origine della corrente fredda del Mediterraneo: grazie alla Bora – vento freddo, proveniente dalla Siberia, che qui soffia con raffiche tra i 100 e i 170km/h – le acque in inverno raggiungo gli 8°C (un tempo 6°C), da qui l’acqua fredda percorre poi la costa italiana verso sud, seguendo il fondale, inabissandosi e spingendo così verso l’alto le acque più calde che incontra, permettendo sia scambi gassosi che di nutrienti tra le profondità e la superficie. Non solo, così come si raffredda velocemente il Golfo si riscalda anche rapidamente, in estate raggiunge i 20-22°C e presenta quindi una comunità biologica complessa e resistente, in grado di tollerare un range di temperatura raro in mare. Tra le specie chiave per l’ecosistema, in quanto costruttrici di habitat, troviamo le spugne, le pinne nobilis, alghe, praterie di piante marine e la cladocora (una specie simile ai coralli tropicali). Esse sono rifugio, fonte di cibo e luogo per la deposizione delle uova per molti degli organismi che qui vivono. Infine anche il fondale del Golfo è peculiare per uno spazio così piccolo: roccioso lungo la costa, sabbioso con ciottoli e rocce sparse tra i 5 e i 10m di profondità e limaccioso oltre i 10m, una combinazione di ambienti diversi che ospita reti trofiche ben distinte e permette la radicazione di un elevato numero di specie.
Le attività del porto e quelle di pesca hanno modificato ed interagito con l’ecosistema per ormai centinaia di anni, portando sì ricchezza e sostentamento al territorio ma causando in maniera più o meno cosciente danni irreparabili di cui oggi vediamo gli effetti. La sovrapesca, che ha caratterizzato gli anni ‘60-‘90 del secolo scorso, ha causato la quasi totale scomparsa del tonno rosso (che qui migrava in primavera e autunno), delle praterie sottomarine e la riduzione più o meno drastica dei predatori (squali, orate e branzini). Le attività portuali e industriali hanno contribuito e continuano a farlo, all’immissione nelle acque del Golfo di grandi quantità di metalli pesanti (per lo più oggi depositati nel limo del fondale), olii, idrocarburi e specie aliene. E se in passato ci si poteva nascondere dietro una maschera di ignoranza riguardo agli effetti che le attività antropiche hanno sull’ecosistema marino, oggi non è più accettabile. In particolare, non deve più essere tollerabile ignorare l’impatto delle grandi navi commerciali e passeggeri: porta-container, petroliere e crociere. La eliche e i motori necessari a muoverle hanno una potenza tale da riuscire a smuovere il fondale fino a 20-25m di profondità, riportando quindi in sospensione i metalli pesanti depositati e rendendo difficilissima la ricrescita delle praterie sottomarine. Anche quando vengono rispettati i limiti imposti dalle convenzioni internazionali – MARPOL – vengono scaricate in mare acque grigie e nere ricche di sostanze tossiche (da detersivi e prodotti per la pulizia), batteri e fertilizzanti (da rifiuti organici e deiezioni). Le crociere inoltre, dovendo tenere i motori accesi anche quando attraccate, contribuiscono ad aumentare sensibilmente sia l’inquinamento atmosferico da polveri sottili – una nave inquina più dell’interno parco veicolare della città – che quello marino, in quanto i modernissimi sistemi usati per abbattere la quantità di particolato rilasciato in atmosfera (in particolare di zolfo, la cui immissione in atmosfera è dal gennaio 2020 limitata drasticamente), prevedono il filtraggio dei fumi con conseguente scarico in mare delle acque usate a questo scopo.
In un Golfo piccolo, affollato di umani e navi, è già sorprendente poter dire che le comunità biotiche sono tutto sommato ancora variegate ed in buono stato, ma per quanto ancora? I cambiamenti climatici si stanno rapidamente sommando ai problemi sopra descritti, esacerbandone alcuni e creandone di nuovi. La tropicalizzazione del Mediterraneo e gli inverni sempre più miti, stanno riscaldando l’acqua del Golfo: ormai è raro che le temperature siano inferiori ai 10°C d’inverno e comune che raggiungano anche i 26-28°C nei mesi estivi. Ciò crea condizioni ideali non solo per la nascita ma anche per il radicamento di specie aliene tropicali. Arrivano come uova o giovanili, trasportate dalle acque di zavorra delle navi e se trovano temperature e condizioni a loro favorevoli si sviluppano diventando organismi adulti. Nella maggior parte dei casi non ci sono predatori a ridurne il numero – perché sconosciute – ed entrano in competizione con le locali per il cibo, solitamente vincendo, in quanto provenienti da oceani e mari dove la competizione per le risorse è molto alta. Esempi sotto gli occhi di tutti sono le noci di mare, una specie planctonica simile alle meduse per aspetto ma senza tentacoli e cellule urticanti, il granchio blu, avvistato fin dagli anni ‘50 ma mai nei numeri e con la vasta distribuzione riscontrata oggi e i pesci serra, grandi predatori oceanici ormai comuni anche qui; tutte e tre le specie sono predatrici voraci di uova e altri organismi.
Essere consci e consce dei rischi che corre il mare, e quindi tutto il pianeta, è il primo passo per ripensare i nostri consumi ed il modello di sviluppo che vogliamo seguire. Sono state azioni politiche in risposta a disastri o a pressioni da parte del pubblico a far sì che alcune regole internazionali venissero per lo meno pensate: il divieto di gettare rifiuti plastici in mare per esempio arriva solo nell’‘88 ed è stato frutto di anni di lavoro e lotte. Durante gli incontri è stato chiesto “ma cosa possiamo fare noi per limitare i danni ad ecosistema ed ambiente?”, la risposta è stata “purtroppo poco, in prima persona, molto se in qualche modo producessimo una pressione tale da far rispettare, anche solo le regole già in essere, a quelle corporation ed amministrazioni che perseguono solo profitti ed alti margini di guadagno ad ogni costo.”
L’impegno della singola persona ad avere una vita più eco-sostenibile possibile è infatti fondamentale, ma non servirà a nulla se amministrazioni e corporation non accetteranno le loro enormi responsabilità nell’aver causato e nel continuare a creare danni ambientali, sociali e climatici. Non sono sostenibili né grandi navi con migliaia di passeggeri a bordo né porta-container e petroliere sempre più grandi che necessitano di allargare porti e banchine. Chiunque affermi il contrario o ancora non sa come funziona l’ecosistema mare, o è un criminale ambientale.
Cristina